Ero incerto se scrivere questo post poi, leggendo un commento di Alessio (lettore e motociclista), mi sono convinto. Vorrei tentare di spiegare perchè fare questo tipo di viaggi, perchè farli in moto, perchè farli da soli, perchè avventurarsi in prove più o meno estreme e vorrei cercare di spiegarvelo a parole semplici perchè, secondo me, lo avete solo dimenticato. Anche io ho avuto la macchina. Lasciate perdere, sgombrate la mente, i due mezzi non possono essere paragonati e non per un concetto di “meglio/peggio”, fidatevi, sgombrate la mente e leggete quello che segue. Vorrei dedicare questo post ai cugini Stefano ed Alessandro che hanno paventato, almeno una volta, l’idea di prendere una moto.
Siete in ufficio, la gente attorno a voi parla e non fa altro. La osservate da dentro il vostro completo, protetti da una camicia e da una cravatta. Protetti da una profesisonalità che vi impedisce di esprimere quello che sentite: la voglia di un po’ di silenzio. All’uscita dell’ufficio vorreste prendervi qualche ora per voi ma il traffico e le scadenze quotidiane vi impediscono di farlo. Dovete rientrare a casa, dovete pensare alla vostra famiglia, dovete…
Non c’è niente di male in questo. La vostra famiglia è ciò che amate di più al mondo. Ripeto, non c’è niente di male ma ad un certo punto si perde il ricordo ci ciò che significa il silenzio. Ora, per come la vedo io, il silenzio si trova in mille forme. Uno dei miei cugini (Stefano) suona il violino, l’altro (Alessandro) la chitarra. La musica è forse la più grande forma di libertà mentale e spirituale che esista. Riesce a cambiare la percezione del mondo, a portarti in luoghi lontani e a ritemprarti. Non devi neanche saperla suonare: la devi solo saper ascoltare. Ma è proprio di questo che si tratta…saper ascoltare.
Quelli che come me decidono di intraprendere un viaggio come questo, hanno bisogno di ascoltarsi. Non hanno domande a cui dare risposta, forse pensano di averne ma non è così. Hanno bisogno di salire su un monte e di rimanere a fissare il nulla per poter sentire, per una volta, solo il suono di ciò che hanno dimenticato. È una coccola e, al tempo stesso, una necessità. Per questo molti noi, compreso me, sfidano grandine, piogge, deserti, lande desolate o corrono come matti. Ciascuno ha trovato la sua misura ed è ugualmente rischiosa: va solo accettata per ciò che è, comprendendone limiti e vantaggi.
Non voglio giustificare chi fa le follie, intendiamoci, ma prendiamo quello che è successo in questo viaggio. Un’amica è stata molto prudente e (secondo me) intelligente nel valutare l’evento di pioggia e la mia scelta di proseguire. Sfidare un’ora e mezza di grandine è, credetemi, pericoloso e sfiancante ma, in quel momento, tu sei con te stesso. In mezzo a quel casino tutto quello che riesci a sentire è il rumore del motore e, a parte quello, ti sembra di sentire il rumore del tuo cuore. Non è un modo di dire, è proprio così e quando smette di piovere e tu grondi acqua e tremi dal freddo, ti si spalancano gli occhi e ti metti a piangere dalla gioia e a ridere perchè tu, in quel momento, eri tutto il mondo. Diventi una cosa sola con le asperità della strada, con l’acqua che senti scorrere sul corpo, con il freddo che respiri e che entra dalla pelle. Molti di voi diranno
Ma che sei scemo? Io sto tanto bene sulla sedia a prendere il sole o a guardare la televisione.
Non giudicateci perchè per noi, ciò che viviamo in momenti come quello, è lo stesso che vivete voi in altro modo. Mentre sei lì, sotto l’acqua che rischia di farti scivolare e di farti ammazzare, senti il cervello che diventa una locomotiva a vapore sparata a tutta velocità. Senti i pensieri sussurrarti dal cervello: controlla la velocità, il numero dei giri, che fa questo qua davanti? Occhio, c’è una buca! Poi, ad un certo punto, anche questo svanisce e tu senti di “planare” sull’acqua. Senti di guidarci sopra, non attraverso. È una sensazione molto strana e non è acqua-planning. Diventi qualcosa con il torrente d’acqua che scivola per terra, con il tempo che corre e con l’acqua che scende dal cielo come Dio la manda. Sì, non c’è altro modo per spiegarlo, diventi una cosa sola. Il tuo respiro nel casco è l’unica cosa che ti riscalda e la forza di volontà viene usata per cercare di fermare le tue braccia che tremano così tanto da far sbacchettare il manubrio. Ti ripeti frasi del tipo.
Ce la faccio, posso farcela. State ferme cazzo!
E non è autoconvincimento…è la verità. Tu sai che non hai ancora raggiunto il limite e che, nonostante possa assolutamente non sembrare, puoi continuare. Ciò che ti fa insistere non è “presunzione”, è quella vocina dal fondo del cervello che ti dice “ancora un po’ di strada…ancora un po’” e il piccolo spiraglio di calore che senti dal motore della moto che tu stai guidando. Lei risponde a te ed è questa la più grande differenza con un auto.
Curvate, pensate a questo, chiudete gli occhi e affrontate una curva in auto mentre grandina. Girate il volante e la macchina vi segue. Bello vero? Tutta la sensibilià la riponete nel volante.
Piegate, ora pensate a questo, chiudete gli occhie e affrontate una piega in moto mentre grandina. Spostate leggermente il peso, spostate tutta la vostra attenzione sulla moto “posteriore leggero, aumenta frenata sull’anteriore, velocità troppo elevata, inclinazione insufficiente. Scala marcia, fai scendere giri, mi serve motore più tirato, vibrazioni sotto-sella, asfalto rovinato. Senti…pioggia in aumento, capacità di frenata potenzialmente compromessa, pronto a spostare il peso” e ognuna di queste cose vi viene trasmetta lungo tutto il corpo e tradotta in pensieri. Vibrazioni sulle gambe, lungo la schiena, leggerezza nello sterzo, spostamenti involontari del mezzo, tutto viene concentrato in un singolo e unico punto: la vostra mente.
In quel momento voi siete lì e percepite ogni goccia di pioggia. Solo voi, la moto e il mondo circostante. Tutto ciò che cerchiamo è di entrare in sintonia con noi stessi. C’è chi va a scalare. Pensate che sia meno rischioso? Pensate che sia meno coinvolgente? Scherzate spero…scalare, in solitaria, è un’esperienza che raccontata fa venire la pelle d’oca, figuriamoci vissuta. La presenza fisica e psicologica, unita alla bellezza della natura rendere tutto indimenticabile. Siete soli a migliaia di metri da terra, retti da qualche moschettone e da una fune che, speriamo, sia costruita bene. Come speriamo che siano costruite bene le gomme che avete montato, la catena che avete ingrassato, i freni che avrete comprato.
Non è il rischio. Non è la prova estrema. È sfruttare il momento per entrare in piena risonanza con se stessi. Poi la pioggia cessa e ti ritrovi sul ciglio di una strada. L’acqua cade da ogni singolo lembo di tessuto. Hai acqua anche nelle mutande, i muscoli non ce la fanno più. Pagherai tutto questo con settimane di dolore reumatico ma, per Dio, sei uscito illeso e lo devi solo a te (e anche alla tua moto). Metti il cavalletto, spegni il motore, togli il casco e guardi la strada deserta con l’acqua che sta scolando dai bordi. Passa un’auto che magari ti bagna i pantaloni e scoppi a ridere. Non te ne frega più niente dei vestiti, non te ne frega più niente del fango. Tu ora sei libero capite? Come guarndo da bambini saltavate nelle pozzanghere e, per farvelo fare, i vostri genitori vi compravano le caloche. Non vi dicevano “non saltare nell’acqua”. Vi permettevano di esprimervi. Il cuore batte e tu tremi…tremi come una foglia. La testa è calda di pensieri, il motore fuma perchè è bollente e ci sbatte sopra la pioggia gelata. Ti accucci verso la moto e allunghi le mani gelide verso il motore. Appendi i guanti al paramotore per farli scaldare e asciugare un minimo. Sembri quasi un barbone se non usassi una moto da oltre 10.000 euro per scaldarti.
Forse di te non è rimasto niente di asciutto ma tu, almeno per oggi, ti sei ricordato chi sei e non perchè hai affrontato la pioggia. Perchè sei riuscito di nuovo a sentirti. Sei solo, sei lontano da casa, sei riuscito a trovare te stesso al momento giusto e sei sopravvissuto.
Voglio dire un’altra cosa. Mentre grandinava un francese ha cercato di fare un sorpasso azzardato. Eravamo su una strada a doppio senso di marcia. Se glielo avessi permesso avrei compromesso tutta la stabilità della moto. Il limite era 50 e lui sarà andato oltre i 100. La sua manovra era irregolare e azzardata. Decisi di accelerare per impedire che la facesse ed era una cosa che dovevo (ma non volevo) fare. Quello è l’esatto momento in cui chi suona affronta un accordo particolarmente difficile, in cui chi scala mette il chiodo che reggerà il moschettone e chi guida la moto diventa tutt’uno con ciò che ha intorno. Quello è il momento in cui, se non sei presente a te stesso, finisce tutto e, spesso, nel peggiore dei modi. Lasciate che vi dica che si vive anche per questo. Mio padre ha ragione a scrivere che in fondo era importante anche quell’esperienza.
E quando ti sei scaldato un po’, guardando il sole che spunta dalle nuvole ormai rotte, ti alzi, guardi l’orizzonte e osservi quella lingua di asfalto perdersi tra colline, curve e case.
“Il tuo viaggio non è ancora finito…coraggio, rimonta in sella e riparti. Hai ancora tanta strada da fare e chissà quali avventure ti aspettano. Ti asciugerai strada facendo.” Questo è tutto quello che pensi mentre, riaccendendo il motore, riparti. Capite ora? Che sia un minuto, dieci secondi o un’ora, noi saliamo in sella per quel motivo e credetemi, molti che non lo hanno mai fatto, lo scoprono dopo aver guidato. Io ero tra questi e da quel giorno mi spiego perchè, anche chi ha perso le gambe, cerca un modo per tornare in sella. Ho visto un ragazzo così: moto modificata per permettergli la guida senza gambe. Aveva cambio automatico e freni sulle leve. Una Harley modificata, con tre ruote. Il cavalletto era un palo che fascava scendere a terra con la mano. Provate a togliergliela. Pensate che sia un pazzo? Forse lui è più libero di tutti noi.
A presto…magari sulla strada.